11. SULLA CHIACCHIERA E SUL SILENZIO

 L’undicesimo capitolo dell’opera di GC si sofferma su quanto sia pericoloso giudicare, essendo “un vizio che si insinua anche in persone apparentemente buone”. Questo discorso vale sia per i monaci che per i semplici fedeli; un tempo i “giudizi temerari” facevano parte dell’esame di coscienza consueto dei cristiani. La causa di questo vizio trova radice nella vanagloria “la chiacchiera è indice di ignoranza, porta alla maldicenza, maestra di scherzi, serva della menzogna, rovina della compunzione, artefice e suscitatrice dell’acedia, precorritrice del sonno; dissipazione del raccoglimento, eliminazione della vigilanza, raffreddamento del fervore, oscuramento della preghiera”.

Di contro l’atteggiamento del silenzio “padre della preghiera, liberazione della prigionia, guardia del fuoco, sorvegliante dei pensieri, vendetta contro i nemici, prigione dell’afflizione, amico delle lacrime, custode del pensiero della morte”. La letteratura cristiana fin dalla lettera di Giacomo pone un’attenzione particolare sulla necessità di dominare la lingua, che non deriva da un distacco da ciò che accade né da un rifiuto dell’altro da uno spazio di autocompiacimento, mutismo, incapacità di comunicare, ma dal riconoscere i propri peccati e dall’imitazione di Cristo che dinanzi a Pilato (Mt 27,14) stà nel silenzio; per non cadere nel tranello di Pietro che a causa della sua parola pianse amaramente (Mt, 26, 75). L’undicesimo gradino richiama alla conoscenza di sé stessi, dei propri peccati tesa alla carità fraterna che vede nell’errore del fratello qualcosa che può essere alla mia portata e che il suo giudizio potrebbe essere per me causa di ulteriori peccati. La vita cristiana è continua conquista di una vita santa (chiamata dai padri Esichia) che esige sempre continuamente lo spezzare continuo di numerosi mali.


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